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Strage del bus di Avellino con 40 morti: Castellucci condannato a 6 anni. L’Appello ribalta l’assoluzione. Ex Ad di Aspi: “Io capro espiatorio”

Il 28 luglio 2013 all’altezza di Monteforte Irpino un autobus precipità dal viadotto Acqualonga. Con l’Ad condannati anche l’ex direttore generale Mollo e altri dipendenti Aspi

NAPOLI. Sei anni di reclusione: la Corte di Appello di Napoli ha ribaltato la sentenza del tribunale di Avellino che aveva assolto l'allora Ad di Aspi Giovanni Castellucci ed altri dirigenti accusati del più grave disastro autostradale italiano: la strage avvenuta sull'A16 la sera del 28 luglio 2013, all'altezza di Monteforte Irpino, in provincia di Avellino, dove un bus precipitò dal viadotto Acqualonga provocando quaranta morti.

«Si doveva trovare un capro espiatorio», l'amaro commento di Castellucci. Con l'ex Ad, condannati a sei anni anche l'ex direttore generale Riccardo Mollo e altri dipendenti di Aspi, pure loro all'epoca assolti - era l'11 gennaio 2019 - tra le urla di rabbia dei parenti delle vittime. Per altri imputati, condannati in primo grado, la pena è stata confermata o rivista al ribasso. Il terribile incidente si verificò intorno alle 20.30 di una domenica d'estate nella quale, dopo alcuni giorni in gita nei luoghi di Padre Pio, una comitiva di famiglie e amici stava tornando a casa a Pozzuoli. Mentre percorreva la discesa dell'A16 Napoli-Canosa, nel territorio di Monteforte Irpino, il bus guidato da Ciro Lametta, fratello del proprietario dell'agenzia Mondo Travel che aveva organizzato il viaggio, cominciò a sbandare dopo aver perso sulla carreggiata il giunto cardanico che garantisce il funzionamento dell'impianto frenante. Dopo aver percorso un chilometro senza freni, ondeggiando a destra e sinistra, tamponando le auto, una quindicina, che trovava sul percorso, l'autista del bus - un mezzo che aveva percorso oltre un milione di chilometri - nel tentativo disperato di frenare la corsa si affiancò alle barriere protettive del viadotto "Acqualonga" che cedettero facendo precipitare il pullmann nel vuoto da un'altezza di 40 metri. Trentotto persone morirono sul colpo, due nei giorni successivi. Dieci i superstiti.

L'inchiesta portò al rinvio a giudizio di 15 persone, 12 delle quali dirigenti ed ex dirigenti di Autostrade per l'Italia, per omicidio colposo, disastro colposo ed altri reati. Per quanto riguarda Castellucci ed altri dirigenti di Aspi l'accusa era in sostanza di aver violato le norme che garantiscono la circolazione autostradale in condizioni di sicurezza e di non aver provveduto alla riqualificazione dell'intero viadotto Acqualonga dell'A16 con la necessaria sostituzione delle barriere. La tesi degli inquirenti, infatti, è sempre stata che se quelle barriere protettive fossero state a norma il bus non sarebbe finito di sotto. In primo grado il pubblico ministero chiese la condanna di Castellucci a 10 anni di reclusione, ma il tribunale lo aveva assolto (insieme ad altri dirigenti), sposando la tesi difensiva, secondo cui non era compito dell'ad di Autostrade decidere quali barriere sostituire. Tesi ribadita anche oggi dai legali di Castellucci, secondo cui l'ad, spiega Paola Severino, «aveva stanziato i fondi per la sostituzione di barriere su oltre 2.200 chilometri di carreggiata», ma «nella fase esecutiva, che ovviamente non competeva all'ingegner Castellucci, si decise di non inserire la barriera del tratto di Acqualonga tra quelli da rinnovare perché valutata adeguata e sicura, come confermato dal perito del Tribunale. È difficile comprendere in cosa consisterebbe la colpa di Castellucci, se non quella di essere l'ad dell'epoca». Dello stesso avviso è Castellucci, che aggiunge: «La sentenza di secondo grado stupisce e sconcerta non solo gli avvocati perché va contro il senso comune e i fatti già accertati in primo grado e confermato in secondo grado. Non posso togliermi dalla testa che questa sia una giustizia condizionata dalla esigenza superiore di trovare un capro espiatorio in presenza di tante vittime alle cui famiglie va, ancora una volta, il mio sincero e profondo cordoglio». Tra i condannati, sia in primo grado - a 12 anni - che in appello - a nove, per una rideterminazione della pena - anche Gennaro Lametta, il proprietario del bus, definito da qualcuno «un catorcio». Che però ha sempre respinto le accuse. Lo fa anche oggi, attraverso l'avvocato Segio Pisani. «Lametta poco prima dell'incidente, come abbiamo dimostrato - spiega il legale - aveva condotto il bus in officina ove erano stati controllati i perni della trasmissione poi ceduta. Paga un errore umano altrui, le gravi omissioni di società autostrade e il sistema corruttivo che in quel periodo imperversava nella motorizzazione partenopea».

Pubblicato su Corriere delle Alpi