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Cutro due mesi dopo: inchieste congelate e sette cadaveri ancora senza nome

Chi poteva ha raggiunto la famiglia all’estero solo 8 sopravvissuti sono rimasti a Crotone: «Agli psicologi chiedono di non ricordare ma l’incubo di quella notte torna sempre»

Il tempo è passato per tutti, ma non per loro. Non per Amin che ha visto morire una bambina nel mare: «Quegli occhi. Erano gli occhi di una bambina piccola. Li rivedo quasi ogni notte. Non sopporto di ricordare. Mi dispiace». E anche Rizwan, pure lui pachistano, è alle prese con i fantasmi del naufragio: «Appena ho messo i piedi sulla spiaggia, ho tirato fuori dal mare tre donne. Ma la quarta donna mi è scappata dalle mani. È tornato nelle onde, è affogata. Sto male».

Era il 26 febbraio. Avvistato alle dieci di sabato sera dentro un mare forza 4 e lasciato al suo destino, il caicco Summer Love partito dalla Turchia si è schiantato alle quattro di domenica mattina contro una secca. A 150 metri da riva, nel comune di Steccato di Cutro. C’erano almeno 180 persone a bordo migranti. Sono 94 le vittime accertate. Due filoni di inchiesta: uno sugli scafisti, l’altro sui mancati soccorsi prima e dopo il naufragio. A che punto è questo secondo procedimento? «Stiamo lavorando» è l’unica frase concessa dal procuratore capo di Crotone Giuseppe Capoccia.

Ancora non è dato sapere se l’indagine contro ignoti per il mancato soccorso sia adesso diventato un fascicolo con degli indagati. E nel caso, sarebbero indagati eccellenti: la Guardia Costiera, la Guardia di Finanza, il ministero per le Infrastrutture. Nulla trapela. Agli avvocati è stato negato l’accesso agli atti.

Restano in Calabria otto sopravvissuti e sette salme senza nome. Otto vivi a Crotone, sette morti seppelliti nel cimitero di Cutro che nessuno ha ancora reclamato. E i vivi rivedono i morti in continuazione, perché loro non possono dimenticare quello che è successo, ma non possono neppure dirlo. «Uno dei sopravvissuti ha fatto un’intervista con il New York Times e poi è entrato in crisi, non parla più, non vuole rievocare quello che è accaduto», racconta Francesca Rocca. «Ricordare il naufragio è ancora motivo di enorme angoscia».

Per il Comune di Crotone, attraverso l’assessorato alle Politiche Sociali, la signora Rocca coordina il progetto di inserimento di chi ha scelto di rimanere in Calabria: «Sono sette pachistani e un iraniano. Quest’ultimo era un oppositore del regime, gli hanno bruciato il negozio, è dovuto scappare per salvarsi la vita. Il suo piano era arrivare qui, trovare un lavoro e poi farsi raggiungere dalla moglie e dai figli».

I sopravvissuti afghani sono tutti andati via. Perché sono arrivati, infine, proprio dove volevano arrivare fin dall’inizio: Germania, Francia, Olanda. Da lì sono in contatto con gli avvocati italiani che seguono gli sviluppi delle due inchieste. «Abbiamo trovato l’interprete. Questa sera faremo una riunione con una famiglia che si è riunita a Düsseldorf. In molti ci chiedono di poter andare a riconoscere quelle sette salme senza nome».

Gli otto scampati rimasti a Crotone sono soli in questa parte del mondo. Non hanno parenti in Europa. Sono i primi della loro famiglia a essere partiti. Erano stati scelti. Toccava a loro. Dovevano essere come una testa di ponte. Ma non hanno riferimenti qui. Ecco perché hanno chiesto di poter restare a vivere nella terra della loro sventura. «Abitano tutti a Crotone. Stanno in due alloggi del quartiere Farina. Di mattina hanno le visite degli avvocati, quelle psicologiche e mediche, uno dei sopravvissi ha riportato molte fratture. Di pomeriggio vanno a scuola. Stanno studiando italiano. Hanno trovato qui una comunità pakistana ben inserita, e questo per loro è motivo di conforto. Certe sere vanno tutti insieme a camminare sul lungomare», dice Francesca Rocca.

Il PalaMilone è stato il posto del lutto. Delle bare messe in fila su un campo da basket. File e file di bare, più di 40 quelle dei minorenni morti. Lì era arrivato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con uno sguardo impietrito. Lì nessun rappresentante del governo ha voluto presentarsi. Ora è un palazzetto dello sport svuotato e in ristrutturazione. «Ma abbiamo conservato tutti i giocattoli, tutti i biglietti e le testimonianze lasciate in quel luogo durante i giorni del lutto» dice l’assessora alle politiche sociali Filly Pollinzi. «A settembre costruiremo un memoriale della tragedia. Abbiamo chiesto anche all’artista Jorit di realizzare un murale in ricordo delle vittime».

In una delle città più povere d’Italia stanno facendo ogni cosa per non lasciare soli i vivi e i morti, i fantasmi e gli scampati. Ma la maggior parte delle persone coinvolte nel naufragio ormai sono altrove. Ad Amburgo, dopo infinite traversie, passando dall’Iran e dall’Italia, è arrivato davanti alla tomba di suo figlio Meysam, 16 anni, il signor Javid Qasemi. È un ex poliziotto afgano perseguitato dai taleban, vedovo da due anni: «Perché è successo? È stata davvero una sfortuna o mio figlio poteva essere salvato?».

Pubblicato su Corriere delle Alpi